Federer dal vivo: un dovere civile e morale

Categoria: Sport

Tic tac, tic tac. Il tempo avvicina ogni giorno di più Roger Federer all’annuncio del suo ritiro dal tennis giocato, anche se in questo 2017 il campione basilese sta firmando una delle stagioni più memorabili di sempre, impreziosita dalla conquista di due tornei del Grande Slam e dall’inseguimento del trono nella classifica ATP. Gli anni però sono sempre 36, e a fianco del novero dei trofei alzati in carriera bisogna considerare un altro conto: quello alla rovescia che lo vedrà, un giorno, annunciare al mondo il suo ritiro.

La prima ipotesi è che questo accadrà a stagione ancora in corso, ed è facile immaginare che cosa succederà: ogni torneo, ogni partita si trasformerà in una lacrimevole passerella con incontri che registreranno in pochi minuti il tutto esaurito – poco importerà se dall’altra parte della rete si troverà il numero 1 o 101 al mondo. Come già capitato a Kobe Bryant e ad altre icone sportive capaci di travalicare i margini della singola disciplina e conquistare i cuori di chi a malapena si interessa dei risultati il lunedì mattina, il mondo accorrerà allo stadio per salutarlo/ammirarlo/riverirlo, in base al grado di fanatismo del singolo. La seconda ipotesi è che Federer lo annuncerà alla fine di una delle prossime stagioni, ed ecco dunque il dramma per chi non l’avrà mai apprezzato dal vivo durante un match agonistico: rendersi conto che, ormai, sarà troppo tardi.

Proprio per evitare questo destino oggi io, mio fratello e mio padre andiamo in pellegrinaggio a Basilea per assistere per la prima volta a una partita giocata da Roger. Assistiamo alla sua partita d’esordio nel torneo di casa edizione 2017, per non speculare su un’eventuale semifinale o finale: vogliamo vederlo dal vivo, dobbiamo farlo. Qualunque svizzero minimamente interessato allo sport ha infatti il dovere di vivere un’esperienza del genere, anche solo per riconoscenza: ognuno di noi ricorderà infatti almeno un successo di Federer negli ultimi quindici anni, forse perché coincideva con un giorno importante della propria vita o semplicemente perché affermava il suo ruolo di unica, vera icona rossocrociata dopo Guglielmo Tell (Heidi, perdonaci). In occasione di ogni giocata ci ha fatto sentire più svizzeri, sia che ci trovassimo nel nostro Paese o lontani da casa. E in molti devono ancora dirgli grazie di persona.

Ma c’è anche una ragione più egoistica. Se chi legge chiuderà questa pagina e, bofonchiando, dirà: “Sì, vabbe’, magari un giorno”, che cosa succederà? Succederà che un giorno tra dieci, trenta o cinquant’anni un nipotino arriverà da noi e ci tirerà la manica della giacca per chiederci qualcosa. “Qualcosa su quando eri giovane, nonno/a” preciserà. E noi ci inginocchieremo (se ancora ne saremo in grado), prospettandoci una domanda sul ghiacciaio del Basodino (che forse non ci sarà più) o su quando ancora si sciava sul Monte Tamaro. E invece no, ci chiederà di Roger Federer perché, “sai, ne abbiamo parlato a scuola l’altro giorno e volevo chiederti se l’hai visto, ma visto dal vivo”. Cosa risponderemo, allora? Potremmo mai deludere così le future generazioni dicendo loro che non abbiamo mai visto una sua partita, perché avevamo di meglio da fare?

No, no. Organizziamoci. Pianifichiamo una trasferta. Andiamo alla corte di Federer, almeno una volta nella vita. Poco importa se sarà un 6-0 6-0 chiuso in una cinquantina minuti; ne nascerà comunque un racconto memorabile, che ci accompagnerà giorno per giorno dopo il suo ritiro, ci leverà un po’ di malinconia e sarà tramandato ai posteri. Ma soprattutto, ci darà l’occasione di mettere a letto i nipotini ed esordire con: “Questa è la storia del più grande dei grandi: il suo nome era Roger. Una volta, pensa, l’ho visto anche dal vivo e ci sono arrivato vicino vicino. A tanto così”.