Oggi, venerdì 18 maggio 2018, disputerò la mia ultima partita di calcio. Sono passati più di vent’anni dal mio esordio negli allievi E, ed è naturale guardarsi indietro. A 8 anni ricordo le tante telefonate ai miei genitori dalle montagne della Valtellina, dove trascorrevo le vacanze coi miei fratelli e mia nonna: esigevo di sapere se l’AS Vezia avrebbe formato una squadra. Volevo giocare. La squadra fu poi formata, ma quello che ancora non sapevo è che il calcio non sarebbe mai stato solo un gioco per me: è stato tante cose.
Negli anni dell’infanzia, il calcio è stato soprattutto aggregazione. Tra noi bambini del paese, certo, ma soprattutto tra me e i miei due migliori amici. Nonostante l’anno di differenza che ci teneva lontani a scuola, ci vedevamo agli allenamenti, al campetto, alle partite. Ricordo i tornei in palestra a Savosa, in cui c’era persino il lusso di avere un commentatore che annunciava attraverso due casse fischianti i numeri di maglia e i cognomi di chi segnava. Un microfono, ragazzi: bastava quello e ci sentivamo protagonisti di una puntata di Holly e Benji.
Negli anni dell’adolescenza, il calcio è stato insegnamento. Col mio primo allenatore (Nicola) ho stretto un’amicizia suggellata da un viaggio indimenticabile in America, ma anche chi è venuto dopo di lui ha saputo offrirmi consigli e suggerimenti. Ricordo il discorso di un vice-allenatore, Stefano, che mi spronava a combattere per quello in cui credevo: quel giorno parlava della fascia di capitano, ma erano parole che si potevano adattare a ogni aspetto della vita. Una ragazza, un lavoro, un romanzo.
Negli anni della giovinezza, il calcio è stato spensieratezza. Due ore di ossigeno nell’asfissia creata dal servizio militare, il ritorno in Ticino durante gli anni dell’università e le uscite dopo l’allenamento del venerdì sera. Potevo allenarmi solo una sera su due, che voleva dire panchina garantita per le stagioni passate con la maglia dell’FC Pradello. Una delle poche partite in cui sono partito titolare era quella decisiva per la promozione in Quarta Lega: segnai, iniziò a piovere, difendemmo il risultato. Al novantesimo, io e i miei due migliori amici festeggiammo abbracciati. Era un campaccio, di quelli con più fango che erba. Ma per noi era come vincere il campionato di Serie A a San Siro.
Negli ultimi anni, il calcio è stato multiculturalità. La possibilità di giocare per la Franklin University di Sorengo e scendere in campo con giocatori provenienti da almeno venti Paesi diversi. La fortuna di conoscere Tomaso, Riccardo e altri nuovi amici che venivano da meno lontano e con cui ho condiviso sconfitte, rimonte e viaggi.
Oggi, per me, il calcio è un bel ricordo. Che non ho vissuto da solo, per fortuna. Oltre ai compagni di squadra e agli allenatori, a bordo campo ci sono sempre stati occhi attenti a seguirmi: quelli dei miei genitori, e di mio padre in particolare. Niente sceneggiate, mai una parola o un commento durante la partita: quelle erano cose che mi confidava solo alla fine del secondo tempo, in privato. Lui c’è stato fin dalle primissime volte, e non ha mai smesso di venire a vedermi in tutti questi anni. Ho avuto la fortuna di incrociare il suo sguardo durante i momenti più difficili, ma anche di dedicargli qualche gol. Per noi il calcio è stato una forma di interazione, un modo per conoscerci, un canale di comunicazione privato – nonostante le altre decine di persone presenti al campo. Per noi, in tutti questi anni, il calcio è stato famiglia.
E poi c’è chi dice che è solo un gioco.